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3 astucci di rasoio / cosiddette novaculae (126/AV, 128/AV)

    3 astucci di rasoio / cosiddette novaculae (126/AV, 128/AV)
    ultimi decenni XIX secolo
    Materiale osseo (avorio?) estremamente degradato, ri- coperto da una patina ottenuta con un impasto di gesso e resina.
    0127/AV
    Altezza: 12,5 cm, Larghezza: 9 cm
    Lupa, un erote a cavallo di una leonessa
    FALSO
    Simili per struttura, dimensioni e distribuzione degli apparati decorativi, i tre astucci (126/AV, 128/AV) dovevano contenere una lama quadrangolare (non conservata), incernierata su di un perno passante a una delle estremità ed estraibile con movimento rotatorio; dotati di un profondo incavo praticato con una sega, essi sarebbero serviti allo stesso tempo come manico con cui impugnare il rasoio al momento dell’impiego. Intagliati ciascuno in un unico blocco di materiale osseo, i tre astucci sono stati ricoperti da una patina destinata a conferire un aspetto lucido e leggermente brunito, imitante quello di supposti oggetti di scavo.
    Crf. 126/AV

    Crf.128/AV



    Bergamini, seguito dall’epigrafista Margherita Guarducci, ha ricollegato l’origine dei quindici rasoi della collezione Gualino a un gruppo di antiquari, artigiani-restauratori e archeologi che, nella Roma di fine Ottocento, faceva capo al Cavalier Francesco Martinetti (1833-1895), personaggio dalla fama tutt’altro che immacolata (Guarducci 1980, pp. 471-529; Bergamini 1982, pp. 246-251; Guarducci 1984, pp. 132- 161; Perrone Mercanti 1990; Cerbella 2008, pp. 64-71). A dispetto di una profonda cultura, di incarichi ufficiali e di riconoscimenti nel mondo accademico, il nome di Martinetti è rimasto legato a un lucroso commercio di manufatti archeologici, fra i quali si annoverano falsi conclamati, come il cosiddetto Trono di Boston, oppure oggetti lungamente dibattuti, come la Fibula Prenestina: collaborando strettamente con l’archeologo tedesco Wolfgang Helbig (1839-1915) e avendo alle proprie di- pendenze artigiani specializzati nella scultura del marmo, nell’incisione delle gemme e nelle arti orafe, questo singolare personaggio avrebbe sovrainteso per molti decenni alla creazione di una serie di falsi tanto numerosa quanto eterogenea, destinati a collezioni private o a musei diretti da persone fiduciose nelle perizie ompiacenti di Helbig. Proprio fra gli interessi di quest’ultimo è documentato quello per i rasoi di epoca romana (in latino novaculae), tipologia di manufatti ancora ignota nella seconda metà del XIX secolo, fino a quando lo stesso Helbig, nel 1878, non asserì di possederne uno (fornitogli, sembra, proprio da Martinetti; Bergamini 1982, pp. 246-249); si trattava dell’esemplare della collezione Gualino poi perduto (Venturi 1926, tav. 61; cfr. Bergamini 1982, p. 246), ma affine per forma e stile agli esemplari oggi divisi fra il Museo Civico e la Galleria Sabauda. La comune provenienza dalla raccolta del pittore romano Attilio Simonetti (1843-1925), amico di Helbig nonché abituale cliente di Martinetti, offre ulteriori appigli per identificare in quest’ultimo l’ideatore di tali falsi.



    Come già cautamente suggerito (Bergamini 1982, p. 251 nota 14), è possibile riconoscere in queste e nelle novaculae della Galleria Sabauda due mani diverse, caratterizzate rispettivamente da un linearismo grafico nella resa degli animali (esemplare 126/AV, simile ai pezzi della Galleria Sabauda nn. 134, 137, 142 e 143), e da un naturalismo non privo di un certo gusto espressionista (esemplari 127 e 128/ AV, accostabili ai pezzi in Galleria Sabauda nn. 136, 138, 139, 140, 141, 144, 145). E precisa- mente due sono stati i candidati quali artefici materiali degli oggetti: Martinetti stesso, orafo e incisore di talento (Cerbella 2008, p. 70); e lo scultore romano Pio Riccardi, forse autore del Trono di Boston, residente – semplice casualità? – a poca distanza dalla casa di Simonetti (Guarducci 1984, pp. 135-136).
    Mallé L., Smalti e avori del Museo d'Arte Antica, 1969, pp. 279-280,
    Bergamini G., Dagli ori antichi agli anni Venti. Le collezioni di Riccardo Gualino. Le "novaculae " falsi dell'ottocento, 1982-1983, pp.244-251-249