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c. 1480
Legno di pino cembro dipinto e dorato
1066/L
Altezza: 118 cm, Larghezza: 58 cm, Profondità: 40 cm
Madonna col Bambino
La scultura della Madonna col Bambino è ricavata da un unico blocco ligneo coincidente con il punto di separazione di due grossi rami, per disporre di un’ampiezza maggiore nella parte bassa. I soli elementi aggiunti sono una tavoletta in corrispondenza del trono sul fianco sinistro, la mano destra della Vergine, l’avambraccio sinistro del Bambino e la parte aggettante del manto che scende rispetto al piano di appoggio accanto al piede destro. La vivace policromia è arricchita dalle dorature, realizzate con foglia d’oro nelle parti più visibili e nelle altre con “oro di mezzo” (Zwischgold), meno costoso, che appare ora fortemente annerito a causa dell’ossidazione dell’argento che lo compone. Sulla veste della Vergine e sul trono è stata applicata la preziosa tecnica del Pressbrokat, decorazione tipica dell’area tedesca che simula il disegno di un tessuto.
Al momento non si possiedono dati sulla provenienza originaria della scultura, già appartenuta alla collezione del marchese D'Azeglio.

L'intervento di restauro di cui l'opera è stata oggetto nel 2008 ha permesso di appurare che l’essenza lignea impiegata è quella del pino cembro o cirmolo, materiale utilizzato soprattutto da botteghe attive nell’area alpina, agevolate nell’approvvigionamento di un legno che si incontra in una fascia montana al di sopra dei 1.200 metri di altitudine. Meno stringente è stato l’apporto dell’indagine dendrocronologica, resa più complessa dal fatto di poter valutare gli anelli di crescita sulla base della scultura, dunque sostanzialmente la crescita di un ramo e non del tronco principale; una delle possibili ipotesi di datazione si è mostrata comunque coerente con il dato stilistico, proponendo di collocare il taglio dell’albero al 1505.

Nell'inquadramento storico-artistico dell'opera emergono sostanzialmente due posizioni principali: la prima ribadisce il legame con l'ambiente svevo di Gregor Erhart, avvicinando la Madonna d'Azeglio alla Maria Maddalena oggi al Louvre e il Bambino al Christuskind oggi al Museum für Kunst und Gewerbe di Amburgo; la seconda suggerisce invece un ambito sudtirolese, con cauti riferimenti agli atelier di Klocker o di Potsch.

L'assegnazione di G. Gentile (1995) alla cerchia Gregor Erhart a una data intorno al 1515 presenta qualche difficoltà. Originario di Ulm, Erhart compare per la prima volta nei documenti nel 1494 quando risulta abitare ad Augusta, città in cui rimarrà negli anni a venire fino alla morte, nel 1540. Nel gruppo di opere radunate dalla critica attorno all'unico suo lavoro documentato, una Vergine della Misericordia già a Berlino e distrutta durante la seconda guerra mondiale, ritenuta appartenente all'altare di Kaisheim, eseguito dall'artista tra il 1502 e il 1504, lo scultore non si discosta molto dai modelli elaborati nella bottega del padre Michel; tuttavia allo scadere del primo decennio del nuovo secolo fanno il loro ingresso ad Augusta i modi del Rinascimento italiano, veneto soprattutto, di cui lo stesso Gregor dovette risentire, pur senza riuscire a inserirsi appieno nella nuova situazione, come invece fece suo nipote e allievo Hans Daucher.

Più sostanziali appaiono invece i legami con il Tirolo del Sud, notati da Müller che già nel 1976 segnalò stretti rapporti stilistici tra la Madonna d'Azeglio e una Madonna assisa collocata al centro di un altare a portelle oggi al Victoria & Albert Museum di Londra, attribuito a Rupert Potsch. Questa localizzazione pare trovare conferma nelle analisi chimiche relative alla preparazione pittorica, che hanno rilevato la presenza di calcari dolomitici.

Il riconoscimento di una vicinanza stilistica con la Madonna dell'altare londinese non è tuttavia risolutivo per la Madonna d'Azeglio, ma può aiutare a contestualizzarla meglio nella realtà sudtirolese dei primi del Cinquecento, dominata da personalità che si erano formate nella fiorente bottega di Hans Klocker a Bressanone, tra cui probabilmente anche Rupert Potsch. Una realtà che presenta ancora molti punti oscuri in quanto, come nel resto dei territori di area germanica, per l'esecuzione di lavori complessi come gli altari a portelle, le botteghe tirolesi si avvalevano di numerosi collaboratori: oltre ai pittori e agli scultori erano infatti anche richiesti falegnami per il lavoro di carpenteria, mentre ai cosiddetti Fassmaler andava l'incarico di dorare e dipingere le statue scolpite. Professionalità diverse intervenivano sulla stessa macchina e ad ognuna competevano mansioni distinte, non senza che il labile confine tra le diverse specializzazioni generasse talvolta qualche conflitto. Bisogna inoltre considerare le differenze che, all'interno di una stessa professione, erano determinate dalla gerarchia degli esecutori e da quella delle figure: gli elementi scultorei più importanti all'interno dello scrigno potevano essere realizzati da una mano diversa da quella che scolpiva i rilievi delle portelle o della predella e lo stesso discorso vale per le pitture. Tutto questo rende estremamente difficile l'individuazione di mani distinte, anche quando ci si trova di fronte a un'opera firmata (e non pochi degli altari realizzati in Tirolo dopo il 1480 dovettero esserlo) o documentata. Il nome sui documenti indica infatti soltanto il capobottega, cioè colui che si fa carico della responsabilità formale di portare avanti l'opera. Sarà un'abitudine che in Tirolo si protrarrà fino al Seicento, quando i vari artisti riceveranno la propria specifica committenza e saranno pagati a parte.

La vicinanza al linguaggio di Klocker non intacca, ma anzi sostanzia, gli influssi svevi di cui la scultura torinese è portatrice: i legami con la Svevia e in generale con la Germania del Sud erano stretti, rafforzati dallo status di terra di passaggio del Tirolo tra i territori tedeschi e l'Italia e dalla omogeneità politica che univa la cosiddetta Vorlande e il Tirolo del Nord e del Sud. L'arte sveva era nettamente predominante, tra XV e XVI secolo, in tutto il Sud della Germania e i suoi influssi si fecero sicuramente sentire anche in Tirolo. A ciò si aggiunga che agli artisti era generalmente prescritto un lungo periodo di viaggio (il cosiddetto Wanderzeit, che durava dai due ai quattro anni) al termine del proprio apprendistato e i territori austriaci e della Germania del Sud erano la meta privilegiata. Un tramite di primaria importanza dovette anche essere costituito dalla grafica, soprattutto quella del Maestro E.S. e di Martin Schongauer e proprio le stampe di quest'ultimo divennero un insostituibile repertorio di modelli per Klocker e bottega.
Baiocco S., Spina M., La "Madonna d'Azeglio", 2012, 166-175,
Mallé L., Le sculture del Museo Civico d'Arte Antica, 1965, pp. 150-151,
Palazzo Madama. Guida, 2011, p. 61,
Emanuele d'Azeglio. Il collezionismo come passione, 2016, 54,
Museo Civico di Torino. Sezione Arte Antica. Cento tavole riproducenti circa 700 oggetti pubblicate per cura della Direzione del Museo, 1905,
A.A. V.V., Palazzo Madama. Studi e notizie. Rivista annuale del Museo Civico d'Arte Antica di Torino, anno II, numero 1/2011, 2011, 166-175