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Ciborio
1568
marmo
0437/PM
Altezza: 84 cm, Larghezza: 36 cm
Stemma spaccato: nel 1° alla banda, accompagnata da due rose bottonate a cinque petali, nel 2° alla stella a sei punte. L'oggetto in esame, stando all'iscrizione, sembrerebbe ascriversi ad un membro dell'antichissima famiglia fiorentina Castiglione, abitante nel primo cerchio di mura, la quale però presenta uno stemma diverso: spaccato, nel primo di rosso pieno, nel secondo d'argento a tre cani rampanti del primo, ordinati 2, 1, il terzo rivolto. Il primitivo nome era Catellini, che poi cambiò in Da Castiglione, per la signoria che ebbe sul castello di Cercina (G. B. Crollalanza, vol. I, 1886, p. 258). Uno stemma analogo a quello del tabernacolo del Museo Civico non è stato riscontrato nei repertori disponibili presso il ricco fondo di araldica alla Biblioteca Reale di Torino (tra cui il manoscritto molto analitico BRT, Archivio Manno, Raccolta di stemmi di famiglie nobili toscane, ms. Varia 615); sono state inoltre consultate, senza risultato, le seguenti opere a stampa: F. Galvani, Sommario storico delle famiglie celebri toscane, Firenze 1865, A. Muzzi, B. Tomasello, A. Tori (a cura di), Sigilli nel Museo Nazionale del Bargello, vol. I, Ecclesiastici, Firenze 1988, F. Fumi Cambi Gado, Stemmi del Museo Nazionale del Bargello, Firenze 1993. Sono esistite però famiglie, in prevalenza toscane, che possedevano un emblema corrispondente al primo punto della spaccatura. Così era infatti lo stemma dei Del Riccio di Firenze, detti anticamente de' Lotteringhi: d'oro alla banda di rosso, accompagnata da due rose dello stesso (G. B. Crollalanza, vol. II, 1888, p. 419); essi cambiarono il proprio nome per volontà di Pietro detto il Riccio, figlio di Baldo (il quale, nato nel piviere di San Pietro in Bossolo, trasferì la residenza della famiglia a Firenze). Sia i Del Riccio che i Castiglione sono nominati insieme come patrizi fiorentini negli elenchi nobiliari che Antonio Manno trascrisse dall'Archivio di Stato di Firenze (BRT, ms. Varia 533, CONTINUA IN ANNOTAZIONI
Il ciborio a tempietto fu acquistato da Giuseppe (?) Vignola per 700 lire, nel giugno 1900, come lavoro toscano (Inventario Generale, vol. II, p. 383, inv. 3827).

La base esagonale si alza a spigoli incurvati, le teste d'angelo sono scolpite correntemente; la base del tempietto (dove, lungo il lato inferiore, corre l'iscrizione) è dipinta a monocromo nei tre lati anteriori e in quello centrale ospita uno stemma ovale con due fiori e stella. Il corpo del tabernacolo ha facce chiuse tra nude lesene, tra le quali si aprono archi ciechi, recanti un disco in lunetta. Le tre facce anteriori presentano pitture a monocromo di particolari decorativi su lesene, lunette, arcate. Una trabeazione leggermente arretrata regge la cupola esagonale a scaglie, culminante in un'edicoletta a tamburo, forata da profondi occhi; copre il tamburo una seconda cupoletta analoga. Nulla in più della descrizione dell'opera emerge dall'analisi di Mallé (L. Mallé. 1965, p. 202), che vi riconosce l'ambito toscano, senza però individuarne la provenienza.

La tipologia del ciborio isolato a edicola a pianta poligonale trova le sue prime attestazioni nelle opere di Desiderio da Settignano già in San Pier Maggiore a Firenze (1450-1455), oppure in quelle di Benedetto da Maiano in San Domenico a Siena (1473-1475) e nella collegiata di San Gimignano, ovvero nel ciborio di Matteo Civitali per il duomo di Lucca, ora a Londra nel Victoria & Albert Museum. Roberto Paolo Ciardi mostra come tale tipologia sia anche ben rappresentata in Versilia: tra la fine del XV e gli inizi del successivo sono collocati il tabernacolo di Farnocchia (proveniente da San Martino di Pietrasanta, opera di Lorenzo Stagi, 1497-1502), mentre entro il terzo decennio del '500 sono databili quelli di San Pietro Apostolo di Nocchi e di Santa Maria Assunta di Cardoso (ma proveniente da Sant'Agostino di Pietrasanta), quest'ultimo datato 1528. Gli esemplari tardo-quattrocenteschi sono caratterizzati da una cupola a a squame suddivisa in spicchi aperti e collegati al cornicione da conchiglie, dal motivo a graticci sulle facce laterali del corpo, e dallo stelo che presenta foglie d'acanto spinoso, con apici divaricanti e rivolti verso il piede (R. P. Ciardi, 1992, p. 14).

I due tabernacoli di Nocchi e di Cardoso (da tempo attribuiti a Donato Benti, cfr. M. T. Calvano, 1966, pp. 582-583; R. P. Ciardi, 1992, pp. 46, 51) presentano delle caratteristiche piuttosto vicine al ciborio del Museo Civico di Torino, come la copertura a cupola squamata, divisa in spicchi costonati, ma di sesto più ribassato e direttamente impostata sulla cornice; è invece assente nell'opera in museo a Torino il rigoglio decorativo dello stelo. I due manufatti di Nocchi e di Cardoso ricordano i menzionati tabernacoli di Benedetto da Maiano, a loro volta in rapporto con quello di dubbia paternità desideresca di Washington, con quello bronzeo del Vecchietta nel duomo di Siena e con alcuni progetti, di incerta attribuzione a Francesco di Simone Ferrucci, per tabernacoli isolati. La situazione versiliese presenta inoltre come elementi caratteristici le colonnette a clava per il raccordo delle facce e l'occupazione di queste con figure scolpite, accompagnate spesso da una ricca rappresentazione figurata (motivi che mancano nel ciborio al Museo Civico).

Donato Benti, nato a Firenze nel 1470 (morto nel 1537), lavorò per l'opera del duomo di Pietrasanta e fu uomo di fiducia di Michelangelo, nonché suo procuratore dal 1518. Oltre ai lavori documentati (cantorie della chiesa di Santo Stefano, monumento funebre per i duchi di Orléans), sono a lui attribuite diverse opere di scultura sparse nel territorio di Pietrasanta, tra le quali i già citati tabernacolo, usato come fonte battesimale nella chiesa parrocchiale di Cardoso, ed il tabernacoletto per l'olio santo nella chiesa parrocchiale di Nocchi. Battista, figlio di Donato, fu pure scultore (M. T. Calvano, 1966, p. 583), documentato dal 1536 al 1557 circa. Nel 1536 si trovava a Carrara, ma dal 1539-1540 risiedette stabilmente a Pietrasanta; tra le sue opere si ricordano un'arma in marmo per papa Giulio II e un'acquasantiera marmorea ad Empoli (firmata e datata 1557, ora nel museo della collegiata), con rilievi, alla base e sul fusto, di animali ed esseri mostruosi, composti con equilibrio.

Il tabernacolo di Palazzo Madama non sembrerebbe quindi così aggiornato, dal momento che riprende, semplificandoli, dei motivi attestati da circa quarant'anni presso la bottega dei Benti. E' probabile la provenienza da un centro periferico della Toscana (forse da una chiesa intitolata a San Cristoforo, cfr. la scritta sull'opera), al momento non individuabile, a causa anche delle difficoltà presentate dallo scioglimento delle abbreviazioni dell'iscrizione, che è di solito risolutiva.
Mallé L., 1965, p. 202