Il bozzetto per sipario fu realizzato dal pittore, verosimilmente, quando lavora come scenografo per il Teatro Regio di Torino. Quest'attività è documentata con una cronologia che coincide con i suoi vari soggiorni torinesi. Il soggetto riprende il Sacrificio di Ifigenia dalla volta di Stupinigi.
Decorato con scene di feste, di vita campestre e di caccia, su disegni probabilmente forniti dal pittore Pietro Domenico Olivero, il mobile è opera dell'ebanista e intarsiatore specializzato in una produzione riccamente adorna di tarsie, che rimane tuttavia nel solco di una radicata tradizione. A corte gli fu preferito il linguaggio più aggiornato di Piffetti.
È l’unico manoscritto duecentesco all’interno della raccolta di codici miniati del museo costituitasi alla fine dell’Ottocento e ricca di testimonianze del XV secolo. Il codice esemplifica la situazione della Valle Padana nel XIII secolo, un’area nella quale poterono incontrarsi e dar luogo a significativi incroci – in pittura, scultura, oreficeria e miniatura – la cultura figurativa bizantina e quella occidentale.
Il vetro fa parte della raccolta di vetri dorati e vetri dipinti donata al Museo Civico da Emanuele Tapparelli d’Azeglio. L’opera è attribuibile alla produzione giovanile di Lorenzo Monaco, tra influssi della pittura giottesca fiorentina e primi echi del gotico internazionale.
Il medaglione proviene dalla raccolta di vetri del marchese Emanuele Tapparelli d’Azeglio, integralmente donata al museo nel 1890. Raffigura l’imperatrice, moglie di Filippo l’Arabo (244 – 249 d.c.).
L'opera è dono di Emanuele Tapparelli d’Azeglio, già ministro di Vittorio Emanuele II a Londra e poi direttore del museo torinese fino al 1890. La Madonna è posta in piedi sopra ad un basamento ottagonale, attorno al quale corre un'iscrizione latina in lettere gotiche che reca la firma dell'artista. L’impostazione della figura deriva da esempi di Giovanni Pisano, dal quale tuttavia si distacca nel tono aulico e meno carico di "pathos" dell’immagine.
Pittore, antiquario, consigliere comunale e membro di numerose istituzioni culturali, Vittorio Avondo si dedica all'arte fin da giovane. Nel 1872 acquista il castello di Issogne (Aosta) che restaura e riarreda, poi collabora alla costruzione del Borgo Medievale di Torino ed al restauro di Casa Cavassa a Saluzzo. Nel 1890 succede a Tapparelli d’Azeglio alla direzione del Museo Civico: alla sua morte la collezione d’arte perviene allo stesso.
L'identificazione del ritratto si basa sul confronto con il ritratto della duchessa dipinto da Giovanni Caracca nel 1585 in occasione delle nozze, oggi al Museo di Casa Cavassa a Saluzzo. Sullo sfondo si apre uno scorcio sulla galleria che univa Palazzo Madama, allora castello degli Acaia, al Palazzo del vescovo, intorno al quale sarebbe sorto il nuovo Palazzo Ducale di casa Savoia. Il dipinto offre un'importante testimonianza visiva sulla manica di collegamento tra i due palazzi, definitivamente demolita nell'Ottocento.
Hanno inizio i lavori d'indagine sull'edificio, condotti attraverso ricognizioni, scavi, rimozioni, ad opera dall'architetto e studioso portoghese, che l'anno prima aveva iniziato a lavorare al progetto per la costruzione del Borgo Medievale nel parco del Valentino. Collaborano con lui Vincenzo Promis, Vittorio Avondo, Cesare Bertea, Federico Pastoris. Si arriva a ripercorrere tutta la vicenda costruttiva a partire dall'epoca romana e a restituire all'edificio una sua fisionomia, fin dove sono possibili recuperi come la liberazione da strutture aggiuntive esterne e la rimessa in luce delle decorazioni antiche e dei vani occlusi.
Carlo Francesco Vincenzo Ferrero marchese d'Ormea, cui appartiene lo stemma dipinto sul piatto, fu ambasciatore sabaudo presso l'elettore di Sassonia e commissionò intorno al 1730 un servizio di piatti al pittore Johann Gottfried Klinger, attivo dal 1726 nella manifattura di Meissen. Di questo servizio si conservano altri tre esemplari nelle raccolte del Castello Sforzesco di Milano.
Il mobile è opera dell’ebanista che più di ogni altro caratterizza e glorifica il ‘700 piemontese, lavora per i Savoia e per la corte, crea un numero notevolissimo di opere, in parte firmate o documentate e in parte attribuibili per inconfondibili caratteristiche di stile. Il Museo Civico d’Arte Antica conserva dodici opere dell’artista.
La carriera diplomatica lo porta nelle principali capitali europee, dove entra in contatto con antiquari, conoscitori e collezionisti. Tornato a Torino, fa dono al Museo della propria collezione di maioliche e porcellane italiane, cui si aggiunge il lascito postumo di vetri graffiti a oro e di vetri dipinti. Sotto la sua direzione (1879-1890) il Museo si sviluppa come raccolta di arti applicate all'industria, sull'esempio del prestigioso South Kensington Museum di Londra (oggi Victoria and Albert Museum).
Gli oggetti del lascito al Museo Civico provengono dal Messico, Paese nel quale Zaverio Calpini emigra dal 1848 al 1867 e dove entra nel commercio di articoli tecnici (strumenti di ottica, ingegneria e disegno), ricoprendo poi anche il ruolo di console onorario d'Italia. Tra i manufatti più significativi, un ornamento labiale del 1200-1521 d.C., probabilmente realizzato dagli abili artigiani mixtechi, una popolazione dell’Oaxaca, ai quali i conquistatori aztechi chiedevano oggetti preziosi o che più spesso deportavano a Tenochtitlan, capitale dell’impero.
Il codice è decorato da ventinove raffinatissime miniature a grisaille con rifiniture in oro steso a pennellino su alcuni particolari. La miniatura di Marmion, un artista della Francia settentrionale, è influenzata dalla pittura fiamminga di Rogier van der Weyden e dalla miniatura francese di secondo Quattrocento, dal maestro di Moulins al grande Jean Fouquet.
La lastra proviene dall'arredo liturgico dell'antica chiesa di San Salvatore, parte del complesso architettonico medievale del Duomo di Torino. L'edificio fu abbattuto nel 1490, per volere del cardinale Domenico Della Rovere, al fine di edificare la nuova chiesa rinascimentale, l'attuale cattedrale di San Giovanni. Recuperata, insieme ad altri elementi, dall'umanista Filippo Vagnone, fu trasferita al Castelvecchio di Testona, dove rimase fino al momento dell'acquisto da parte del Museo.
La scultura, dono di Emanuele Tapparelli d’Azeglio, appartiene alla produzione plastica in porcellana bianca della manifattura Ginori. Il modello è una scultura ellenistica del III secolo d.C.: il «Fauno che danza suonando i cimbali» era presente nelle collezioni medicee ed esposto nella Tribuna degli Uffizi. La grande fama di cui godette questo marmo antico indusse alla realizzazione di copie in diverse dimensioni e materiali. L’esemplare del Museo, in dimensioni naturali, è probabilmente una replica tra le più pregevoli, realizzata da Gasparo Bruschi, capo modellatore della manifattura toscana.
Raro esemplare della produzione iniziale della manifattura viennese di Claudius Innocentius du Paquier, mescola cineserie a elementi di gusto barocco e rappresenta uno dei pezzi di spicco del dono di Emanuele Tapparelli d'Azeglio al Museo. Sul retro è dipinta la scritta: "Anno a nato Salvatore 1725".
Dono di Ernesto Bertea. Erano utilizzate nel corso delle danze, come in molte altre aree della Polinesia. In seguito esse divennero importanti oggetti di scambio con gli europei. Nel manico spiccano figure antropomorfe femminili che richiamano l'immagine della divinità Arununa, scolpita su un grande monolite nell'isola di Ra'ivavae.
Acquisiti dalle collezioni sabaude, spettano alla progettata tomba dedicata al duca di Nemours, nipote e luogotenente di Luigi XII, morto nella battaglia di Ravenna dell’aprile 1512. Il monumento era stato impostato, ma mai realmente portato a conclusione, nella chiesa di Santa Marta a Milano: un disegno oggi conservato al Victoria and Albert Museum di Londra può rendere l’idea della impostazione generale. I pezzi riconducibili al progetto sono oggi al Castello Sforzesco di Milano e al Victoria and Albert Museum.
L'opera arriva in Museo grazie ad uno scambio con il Museo di Antichità. Proviene dalle raccolte dei duchi di Savoia, dove potrebbe essere pervenuto in età ancora antica, all’inizio del XV secolo, forse negli anni di Amedeo VIII, cioè nel momento di massimo successo presso le corti europee dei prodotti degli Embriachi. Era utilizzato come altarolo per la devozione privata.
Geologo, paleontologo ed appassionato di alpinismo, Bertolomeo Gastaldi dona la sua vasta collezione al Museo Civico, di cui diventa direttore nel 1875. Nel 1880 la famiglia lascia al Museo altri oggetti, tra cui alcuni stemmi nobiliari in pietra recuperati sul territorio e salvati dalla dispersione.
L’inventario generale del Museo informa che questo pannello, congiuntamente ad un altro, che rappresenta la Fuga in Egitto, appartenente alla stessa finestra, proviene dal Castello di Issogne. I due riquadri costituivano, presumibilmente, la vetrata destra del piccolo presbiterio della cappella, che reca lo stemma dei Challant. I cartoni furono invece presumibilmente forniti dal ginevrino Pietro Vaser.
Opera della fine del XV secolo, deposito dell'Economato Benefici Vacanti di Torino. Proveniente da Villa Lascaris, presso Pianezza, il sarcofago presenta lo stemma dei nobili Vagnone, l'iscrizione funebre, e rilievi ispirati a soggetti mitologici. La profonda cultura umanistica e la sensibilità letteraria del committente fanno supporre che sia stato proprio Filippo Vagnone, membro di una delle famiglie più in vista della Torino rinascimentale, a scegliere le decorazioni per la propria urna.
L'installazione dell'aula del Senato subalpino nel salone del primo piano di Palazzo Madama nel 1848 e la destinazione di alcuni ambienti attigui per ospitare gli uffici dei deputati compromette la disponibilità di spazio e l'agevolezza di percorso dell'esposizione. Sebbene con l'unificazione italiana l'Assemblea abbandoni Torino per Firenze, il trasferimento della Pinacoteca s'impone e la collezione dei dipinti passa al piano superiore dell'ex collegio dei Nobili guariniano, divenuto Accademia delle Scienze.
Aperto al pubblico il 4 giugno per iniziativa dell'assessore Pio Agodino, si pone due obiettivi specifici: documentare la storia del lavoro dalle epoche più remote al presente, su modello del South Kensington Museum (oggi Victoria and Albert); raccogliere ed esporre le opere d'arte italiana moderna. Questo impianto iniziale si modifica nei decenni successivi, quando viene abbandonato il terreno della ricerca archeologica e dell'etnografia. Nel 1898 le collezioni d'arte contemporanea danno vita alla Galleria d'Arte Moderna.
Il 2 aprile un infiammato discorso del sovrano Vittorio Emanuele II apre i lavori. Per la capienza troppo limitata dell'aula, il Palazzo non può invece ospitare la prima seduta parlamentare del nuovo Regno d'Italia, che si riunisce il 18 febbraio 1861 a Palazzo Carignano.
Mentre si discutono le proposte sulla collocazione della Pinacoteca Sabauda e l'idea di un ingrandimento dell'edificio, si ripresenta il problema di completare le parti antiche rimaste sospese e di dare un raccordo unitario alla struttura. Prima impegnato nella sistemazione dell'aula senatoria, Ernesto Melano è l'architetto incaricato del lavoro, di cui aveva già presentato un progetto a Carlo Alberto nel 1847. In pieno '800 romantico, l'idea è quella di conservare le vestigia quattrocentesche, creando un "pastìche" neogotico, mai realizzato, con ispirazioni varie, dal Trecento fiorentino al Quattrocento veneziano con qualche tocco orientalizzante.
Il grande salone del primo piano, già degli Svizzeri, viene destinato ad aula del Senato subalpino. L'architetto Ernesto Melano trasforma lo spazio in un'ampia cavea formata da seggi e tribune, un allestimento previsto come provvisorio e che non compromette lo stato originario, essendo indipendente, staccato dalle pareti. Al di sopra del grande ordine monumentale, vengono dipinte decorazioni raffiguranti le gesta della casa Sabauda nei secoli.
Con la decisione di togliere dalla reggia e da varie altre residenze reali, dove pochi privilegiati potevano ammirarle, le opere maggiori di pittura delle varie scuole italiane e straniere, formandone una collezione di pubblico godimento, Carlo Alberto fonda la "Reale Galleria" (poi Pinacoteca Sabauda). Per darle una prima e degna sede, allontana gli uffici, installati all'interno di Palazzo Madama e dispone che occupi l'appartamento del primo piano, secondo la scelta e l'articolazione data da Roberto Tapparelli d'Azeglio, primo direttore e autore di quattro monumentali volumi corredati da litografie.
Installato all'Accademia delle Scienze, con impianto inadeguato, viene trasferito dal famoso astronomo torinese Giovanni Plana al sommo delle due torri romane di Palazzo Madama che vede così l'alterazione più curiosa e vistosa che gli sia occorsa. La "specola" rimane fino alla demolizione nel 1920, dopo il nuovo trasferimento resosi necessario per le troppe perturbazioni atmosferiche, di illuminazione, di stabilità.